mercoledì, Novembre 29 2023

Luciana Lamorgese, si vocifera in ambienti alti e meno alti degli apparati dello Stato, potrebbe essere il prossimo capo del Governo.
Già prefetto, poi Conte consigliere di Stato nel “governo Salvini”, infine dal 5 settembre 2019 ministro dell’Interno nel Governo Conte bis, all’insegna di quella che sarebbe dovuta essere la “discontinuità”.

Un curriculum di tutto rispetto per un possibile capo del Governo venturo che debba offrire novità appetibili ai “responsabili” provenienti dal centrodestra.

In molti l’hanno glorificata come paladina della “sicurezza partecipata”. Quando nel 2017 a Milano ci fu una enorme emergenza profughi con migliaia di richiedenti asilo siriani che arrivavano in una Stazione Centrale divenuta un gigantesco centro di accoglienza gestito da associazioni e da singoli volontari che portavano cibi, coperte, medicine, lei, da prefetto, coinvolse i comuni della città metropolitana in un sistema di accoglienza diffusa. In realtà, come racconta Pierfrancesco Majorino allora assessore ai servizi sociali del Comune, Lamorgese «è arrivata quando le cose erano state abbondantemente impostate. Il suo grande merito è non aver smontato nulla quando si capì che il centrosinistra era in declino, e infine quando arrivò Salvini: più che avere costruito un modello, l’ha difeso». 

Un po’ come ha fatto da ministro dell’Interno, continuando a fare il Prefetto più che il politico. Ha ereditato la linea di Salvini, e la declamata “discontinuità” tanto sbandierata all’insediamento del Conte bis, nelle mani della neoministra, è subito scomparsa dall’orizzonte. Anche perché, va detto, la linea dura nei confronti di migranti e richiedenti asilo continua ad avere parecchi sostenitori sia nei pentastellati (ex sostenitori di Salvini) che negli esponenti del Pd tuttora seguaci di Minniti. Parlamentari e senatori che hanno pesato non poco nelle scelte fatte, o meglio non fatte, del ministro dell’Interno Lamorgese. Che da ottimo prefetto si è premurata di rivestire il pugno di ferro usato da Minniti prima e Salvini poi con un elegante guanto di velluto (guanto che comunque, quando si deve stendere il filo spinato, fa sempre comodo).

Pugno di ferro che Luciana Lamorgese usò anche a Milano, rivendicando a fine mandato ben 127 sgomberi, eseguiti soprattutto contro immigrati irregolari e senzatetto, da palazzi occupati abusivamente.
Sempre a Milano Lamorgese organizzò una gigantesca caccia all’uomo intorno alla Stazione Centrale che però oltre ad ottenere il favore della destra securitaria (e del sorriso di Salvini in una diretta social proprio dalla piazza) non portò grandi risultati. I quasi 300 poliziotti, i mezzi blindati, le squadre cinofile, persino gli agenti a cavallo e un elicottero, la mattina del 3 maggio 2017 bucarono gli schermi dei tg locali e nazionali, ma il risultato fu un clamoroso fiasco: nemmeno un denunciato tra i 52 fermati. Grazie a quella operazione di polizia però quattro immigrati che pensavano di essere irregolari scoprirono che la loro domanda di asilo era stata accolta.

Pugno di ferro in guanto di velluto che Lamorgese ha usato anche nel rapporto con le Ong che si occupano di salvataggi in mare. Ma, sempre da buon prefetto, non ha utilizzato le urlate sguaiate di Salvini che avrebbero tenuto alta l’attenzione sulle stragi in mare e sulla necessità inderogabile del salvataggio, ma infiniti cavilli burocratici e tecnici per fermare le navi delle organizzazioni di soccorso.

Per mesi, anche con la scusa del Covid, i porti italiani sono stati chiusi agli operatori del soccorso in mare e le navi bloccate. Per Giorgia Linardi, portavoce della Ong tedesca Sea-Watch «non c’è differenza con il precedente governo, quello con Salvini»: bloccata Ocean Viking di Sos Méditerranée e Msf, bloccata la Mare Jonio di Mediterranea, bloccata la Alan Kurdi, bloccate le navi di Sea-Watch. «Non c’è collaborazione ma c’è assoluto ostruzionismo, nei fatti questo governo tanto quanto il precedente sta bloccando la nostra azione, altrimenti si assicurerebbe di mandare tutti i soccorsi possibili».
«Le navi delle Ong sono state fermate dalla Guardia Costiera per aspetti tecnici che potevano costituire un pericolo anche se avessero prestato soccorso in mare a chi ne avesse avuto bisogno», ha detto più volte la ministra Lamorgese. Ma quelle navi sono le stesse identiche (semmai negli anni migliorate dal punto di vista tecnico) che per anni hanno lavorato proprio con la Guardia Costiera quando, ai tempi di Mare Nostrum, “guardie e ladri” lavoravano insieme per salvare vite umane.

Anche il nuovo decreto sicurezza, approvato dopo interminabili mesi di trattative e che doveva superare i decreti di Salvini, adotta un approccio emergenziale, contingente e di breve termine per affrontare il fenomeno migratorio. Nonostante l’Italia sia a tutti gli effetti, e non da ora, un paese di immigrazione, si continua a non considerare le migrazioni internazionali come un fenomeno strutturale. 
Certamente qualche miglioramento c’è stato, ma più dettato dalla palese incostituzionalità dei decreti di Salvini che non dalla volontà politica della ministra Lamorgese e del governo Conte. Secondo Amnesty Italia, «nonostante l’intensificarsi del conflitto e gli abusi sistematici contro rifugiati e migranti in Libia, le autorità italiane hanno continuato a fornire supporto alle autorità marittime libiche; avrebbero tra l’altro donato 10 nuove motovedette a novembre e fornito addestramento agli equipaggi libici».

A dimostrazione del fatto che la politica di indifferenza verso le morti in mare (e di complicità con le “autorità” libiche) non è cambiata ci sono i numeri: solo dall’inizio dell’anno si sa di certo che più di ottanta persone sono morte in mare, e centinaia sono state riportate in Libia senza che potessero chiedere asilo. Una tecnica, quella del respingimento, condannata da tribunali nazionali, internazionali e dalle Nazioni Unite. Una dolore infinito e una colpa terribile che il ministro Lamorgese non ha permesso nemmeno di mitigare, bloccando le navi umanitarie.

Ma è guardando verso Est che il pugno di ferro si intravede: tra gennaio e metà novembre del 2020 i respingimenti della Polizia di frontiera di Trieste e Gorizia dei migranti sono aumentati del 420 percento. Sarebbe diritto riconosciuto (ma è sistematicamente violato nel nostro Paese), il poter presentare la richiesta di asilo. Per questo le “riammissioni informali” praticate dal Ministero dell’Interno a partire dalla primavera 2020 ai danni di migranti in transito lungo la “rotta balcanica”, al confine con la Slovenia, sono state giudicati illegittime dal Tribunale ordinario di Roma.  «Lo Stato italiano non avrebbe dovuto dare corso ai respingimenti informali in mancanza di garanzie sull’effettivo trattamento che gli stranieri avrebbero ricevuto negli altri paesi – recita la sentenza – primi fra tutti il diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti e quello di proporre domanda di protezione internazionale». Tali respingimenti – scrivono i gesuiti del centro Astalli – attuati sulla base di un accordo bilaterale Italia-Slovenia del 1996, di fatto violano obblighi costituzionali e del diritto internazionale, tra cui la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ed espongono i migranti, inclusi i richiedenti asilo, a  «vere e proprie torture inflitte dalla polizia croata». Alla faccia del guanto di velluto.

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