giovedì, Settembre 28 2023

Fabio MiniFabio Mini mi fulminò nel 2002 con la sua prefazione ad un libro di due generali cinesi, Qiao Liang e Wang Xiangxsui, Guerra senza limiti.
Dirigevo PeaceReporter, quotidiano online nato grazie a Emergency. Quando il suo nome uscì per la prima volta sul sito contro la guerra senza se e senza ma, ovviamente, in molti furono spiazzati vedendo comparire la faccia di un generale di corpo d’armata. Per non dire delle discussioni -anche feroci- quando il genale arrivò a un incontro nazionale di Emergency per partecipare ad un dibattito sulla guerra. In pochi allora sapevano che Mini è un generale anomalo, un generale “pacifista”.
Tra i vari incarichi è stato portavoce del capo di Stato maggiore dell’Esercito italiano e, dal 1993 al 1996, ha svolto la funzione di addetto militare a Pechino. Ha inoltre diretto l’Istituto superiore di stato maggiore interforze (ISSMI).
Generale di corpo d’armata, è stato capo di Stato maggiore del Comando NATO per il Sud Europa e a partire dal gennaio 2001 ha guidato il Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani. Dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003 è stato comandante delle operazioni di pace in Kosovo a guida NATO, nell’ambito della missione KFOR.
E’ tra i firmatari dell’appello contro la guerra in Siria

Perché ha firmato l’appello?
Condivido la preoccupazione per il popolo siriano. Sono diventato molto scettico e pessimista sulla capacità dei governi e delle grandi istituzioni internazionali di agire nell’interesse dei popoli. Perciò appoggio ogni mobilitazione che richiami gli individui alla loro responsabilità e al loro dovere di far sentire la propria voce. Troppo spesso in questi ultimi vent’anni si è mobilitata l’opinione pubblica e si è ricorso alla guerra per le nefandezze vere o presunte di qualche governante. Alcuni sono stati uccisi, altri consegnati alla giustizia, altri ancora sono stati ignorati. In ogni caso le rispettive popolazioni hanno dovuto soffrire tre volte: prima, durante e dopo la guerra.

C’è chi dice che se gli americani non attaccano (e perdono quindi politicamente) è un guaio perché a vincere sarebbe l’Iran. Se invece attaccano a vincere sarebbe un pezzo di Al-Qaeda. Lei cosa dice, e soprattutto, come se ne potrebbe uscire?
La mentalità del vincere o perdere è tipica della guerra simmetrica o del gioco d’azzardo in cui esiste una posta da conquistare. Nel mondo moderno, con attori sempre più asimmetrici e con interessi sempre meno chiari, vincere o perdere ha cambiato significato. Oggi la vittoria morale può essere perfino la sconfitta militare o politica. Di contro, si può perdere tutto, onore, prestigio, dignità e umanità, vincendo con la sopraffazione, la violenza gratuita, l’azione illegale, l’iniziativa non condivisa dai partner o dagli stessi concittadini. La vera vittoria del terrorismo è trascinare l’avversario nel proprio campo. Se gli americani non attaccano, il regime siriano e al Qaeda possono cantare vittoria, quello iraniano può sentirsi più forte, ma non avranno più alcun alibi per le loro illegalità e i loro soprusi. Sapranno di dover combattere contro una comunità che rispetta le regole e ha gli strumenti legali per farle rispettare. La migliore politica per evitare questo tipo di crisi è la prevenzione che consiste nel favorire le condizioni sociali ed economiche per lo sviluppo armonico di tutti i popoli, la fine di ogni sfruttamento e la salvaguardia della loro dignità. Nel caso non si riesca a prevenire, la via d’uscita può essere politica e diplomatica anche sostenuta dall’uso della forza. Purchè si rinunci al bullismo e alla pretesa di avere una missione divina da compiere. Purchè l’azione militare sia rivolta a porre fine alle sofferenze dei popoli piuttosto che a prolungarle.

Perché secondo lei mentre negli Stati Uniti si è aperto un dibattito in cui molti militari esprimono dubbi o contrarietà all’intervento, nel nostro Paese non si discute?
Siamo a corto d’idee e di voglia di esprimerle. Fra l’altro, il dibattito non è sollecitato. E se anche lo fosse, la categoria non è ritenuta depositaria di esperienze e capacità professionali utili alla comunità: nessuno darebbe un centesimo per l’opinione di un militare che, in quanto tale, si presume che sia soltando un guerrafondaio. La realtà è molto diversa e la sensibilità umana e l’impegno per la pace dei nostri uomini e donne in uniforme sono molto sviluppati. Molto di più che in America. Anzi è proprio questa sensibilità che ha permesso ai governi di approfittarne spacciando per interventi umanitari anche le avventure più meschine.

Cosa pensa dell’invio della Doria in acque libanesi?
Se lo scopo è quello di proteggere i nostri uomini in Libano, è poco significativo e anche un po’ ambiguo visto che si rischia di sembrare pronti all’evacuazione e all’abbandono della missione Onu. Non sembra questa l’intenzione dell’Onu e non mi risulta che altri paesi dei 32 che partecipano alla missione abbiano preso iniziative del genere. Non oso pensare che si tratti del solito giochetto del “c’eravamo anche noi” o che, con l’iniziativa militare, si intenda forzare la mano del governo. A pensar male si fa peccato, ma….

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