martedì, Giugno 6 2023

Scrissi questo racconto “di pura fantasia” nel settembre del ’94 sul Manifesto. La mia prima querela. 
Un senatore (probabilmente la causa della querela) fece un interrogazione parlamentare per sapere se era vero – come riportato da Il Manifesto – che la massoneria avesse voluto depistare le indagini. 
In realtà nell’articolo non c’era nessuna accusa nei confronti della massoneria. Si faceva solo notare che tanti dei personaggi facessero parte dello stesso club. E quindi fossero in rapporti tra loro amichali, privilegiati. Cose che capitano, e che portano spesso a coprirsi gli uni con gli altri.
Fa una certa impressione rileggerlo, oggi, alla luce (finalmente) delle risultanze della commissione di inchiesta.

Nella rada del porto di Livorno, la sera di quel maledetto mercoledì dieci aprile del 1991, passavano le navi da guerra americane e francesi di ritorno, vittoriose, dalla guerra del Golfo.

Quella sera, alle dieci meno un quarto, il traghetto Moby Prince stacca gli ormeggi dalla banchina Carrara 50 del porto e comincia il suo viaggio che si dovrebbe concludere ad Olbia. Il tempo è buono, la visibilità ottima, come riferiscono tutti i testimoni.

Ancorata fuori dal porto, sosta la petroliera Agip Abruzzo, carica di ottantaduemila tonnellate di Crude Oil (petrolio grezzo). Sempre in rada, davanti al porto sostano anche altre navi. La Agip Napoli, un’altra petroliera, la Cape Breton e la Cape Flattery, navi da guerra americane cariche di armi, la Gallant 2, con bandiera panamense e la Port de Lyon, francese, anche loro militarizzate e cariche di armi.

Come ogni altro porto del mondo, anche quello di Livorno ha, alla sua imboccatura, una zona in cui è fatto assoluto divieto di ancoraggio e pesca. Ufficialmente nessuna nave sostava in questa zona.

Ufficialmente è pure vietato, durante la notte, caricare e scaricare materiali dalle navi in rada. Ma da sempre, a Livorno come in altri porti italiani, di notte si continua a lavorare. Dicono che si caricano e si scaricano clandestinamente materiali, contrabbando, traffici in nero. Anche le petroliere, si dice, usano scaricare prodotti raffinati in modo da non pagarci sopra le tasse. Il giro d’affari, dicono, coinvolge più o meno tutti, nel porto, e si calcola in decine di miliardi. Per questo nessuno si stupisce quando, dopo alcuni minuti dal May day (il segnale di soccorso) lanciato dalla Moby Prince, la Agip Abruzzo annuncia di essere stata speronata “forse da una bettolina”. Le bettoline sono piccole navi cisterna che vengono usate per svuotare le grandi petroliere, impossibilitate ad entrare nei porti. E quindi, di notte, non dovrebbero circolare. Anche perché sempre ufficialmente, la Agip Abruzzo trasportava greggio, un materiale che non ha nessun valore sul mercato nero, perché nessuna raffineria è in grado di lavorare greggio non registrato regolarmente.

In realtà, l’Agip Abruzzo si trovava a due miglia dalla sua ubicazione ufficiale, tant’è che lo scontro con il traghetto è avvenuto esattamente al limite della zona di divieto di ancoraggio. Che cosa stesse facendo, e soprattutto che cosa stesse trasportando, non lo sapremo mai.La petroliera, che non è mai stata sotto sequestro, tre mesi dopo l’incidente è stata smantellata in Iran. Il pezzo più grande di quella che era una nave di trecento metri, oggi è lungo dieci centimetri.

Alle dieci e un quarto, l’avvisatore marittimo del porto, Romolo Ricci, registra l’uscita del Moby dal porto di Livorno e conferma la visibilità della petroliera Agip Abruzzo, di cui si ricorda, in modo particolare l’illuminazione (una petroliera di quella stazza tiene accese luci per circa trentamila watt).

Alle dieci e venticinque minuti, dalla Moby Prince parte il segnale di richiesta di soccorsi: “May day, May day, qui Moby Prince”.

Lo scontro è avvenuto. Come, e perché non si sa ancora. Ma non si sa nemmeno perché i soccorsi al traghetto passeggeri siano cominciati dopo tanto tempo.

Alle undici meno un quarto, un’ora e venti dopo lo scontro, viene identificata la Moby Prince, e solo a mezzanotte e venti, una vedetta della capitaneria (la CP232) si apprestata a seguire la rotta di uscita della Moby per cercare eventuali naufraghi.

Nessuno ha quindi sentito il May day. Nessuno ha capito, tra tutte le navi in rada, che a speronare la petroliera fosse stato un traghetto passeggeri. Nessuno è quindi responsabile della cialtronaggine con cui sono stati organizzati e portati i soccorsi.

“…Elemento determinante del verificarsi dell’evento – dicono i periti – è stata la presenza di un fitto banco di nebbia insistente sull’Agip Abruzzo già da quando il Moby Prince stava doppiando la diga della Vegliaia, banco tale da nascondere alla vista del personale della Moby e dei vari testimoni a terra la petroliera stessa”.

Ma tutti i testimoni da terra giurano sulla mancanza assoluta di nebbia. E tutti raccontano di aver visto un incendio a bordo della Agip Abruzzo prima della collisione. E tutti aggiungono pure che la Agip Abruzzo, improvvisamente e inspiegabilmente, spense tutte le luci a bordo poco prima dell’impatto.

L’ufficiale responsabile della sezione velica della accademia navale di Livorno, Roger Olivieri, vede quattro navi in rada, e notava in particolar modo la nave più a sud (la Agip Abruzzo), perché viene avvolta da una “nebulizzazione biancastra molto fitta”. Subito dopo, ” le luci sono scomparse tutte improvvisamente, come fossero state spente. La sagoma – della petroliera – scompare improvvisamente alla nostra vista, niente più luci di fonda o di coperta, rimane solo visibile un bagliore rossastro, già precedentemente notato,. Io e il mio collega pensammo ad un principio d’incendio, e pensammo che la nube fosse dovuta all’intervento di mezzi antincendio… Tuttavia la petroliera rimane un bersaglio perfettamente visibile, soprattutto a chi stava navigando in uscita dalla rada”.

Anni dopo, durante il processo che dovrebbe chiarire gli accadimenti, il Pubblico Ministero chiede l’archiviazione per il comandante della petroliera, Renato Superina, perché non era stato avvisato sulla identità della nave investitrice, e perché sulla petroliera c’era un incendio che metteva in gravissimo pericolo di vita l’equipaggio.

Lo stesso comandante Superina invece sostiene che non c’era pericolo grave ed imminente per le persone. Per radio, e dopo la collisione, comunica che “non c’è abbandono nave, ci allontaniamo per sicurezza….”.

Viene invece richiesto il rinvio a giudizio per il terzo ufficiale della Agip Abruzzo, Valentino Rolla, che ha immediatamente dichiarato di aver riconosciuto la nave investitrice come un traghetto. Ma non è pensabile che non lo abbia riferito al comandante. E alle undici e trentadue, dalla radio di bordo, dopo che alcuni rimorchiatori avevano comunicato l’intenzione di andare a soccorrere l’altra nave “che è completamente in fuoco, andiamo a vedere di salvare qualcuno…” risponde ” vedete voi, comunque noi siamo carichi di ottantaduemila tonnellate di crude oil, tenete presente anche questo, comunque vedete voi…”

In ogni caso, pur essendone a conoscenza, nessuno, dalla petroliera, comunica che la nave in collisione è un traghetto carico di persone.

E nessuno sente i segnali che ancora un’ora dopo la collisione provengono dal Moby. Se, ed è stravagante, si può ipotizzare che la capitaneria di Livorno non abbia ricevuto dei segnali radio provenienti da poche miglia, è impensabile che nessuna delle navi presenti in rada li abbia captati. Ed è impossibile che non li abbiano captati sull’Agip Abruzzo, che purtroppo, era proprio vicina.

Alle dieci e mezza, dalla petroliera, parte la richiesta di aiuto: “Incendio a bordo, da Agip Abruzzo, chiediamo subito assistenza… Una nave probabilmente ci è venuta addosso, incendio a bordo… siamo in rada, in rada a Livorno… Livorno ci vede, e ci vede con gli occhi!!… basta che uscite fuori e vedete le fiamme….”

Alle dieci e quarantaquattro, un altro segnale dalla Moby: “Da Moby Prince, May D…” Alle dieci e cinquantadue, è ancora la radio della Moby che riesce ad infilarsi nel traffico delle radio che parlano con Livorno. Dalle registrazioni della capitaneria si riceve moto disturbato, ma si capiscono queste parole, le ultime: “Day… Day… Cogli..ni” e poi ancora “La pelle è mica la vostra”.

Finalmente, alle undici e venti che viene avvistato il Moby, e un quarto d’ora dopo una lancia della capitaneria si avvicina al traghetto coperto dalle fiamme “Ci siamo avvicinati… ma è impossibile più di tanto, qui è tutto una fiamma…”. Poco dopo, gli ormeggiatori del porto, anche loro sul posto per spegnere le fiamme, trovano l’unico superstite, il mozzo Bertrand. Ma è solo alle undici e quarantadue che dall’imbarcazione che ha raccolto il mozzo arriva questo messaggio “Abbiamo raccolto un naufrago… dice che c’è ancora persone sulla nave…”

Al demente ed inutile soccorso hanno partecipato rimorchiatori antincendio e squadre di vigili del fuoco. Dal giornale di bordo del rimorchiatore Tito Neri IX, si legge che il comandante dello stesso aveva ricevuto ordini dalla Stazione di Comando di Livorno secondo i quali non si sarebbe dovuto indirizzare verso la nave passeggeri, ma verso l’altro obiettivo.

Ma cosa è successo, a bordo del traghetto mentre sul mare tutti si agitavano per evitare di mandare in fumo ottantaduemila tonnellate di petrolio (di qualcos’altro?).

Subito prima della partenza, il nostromo della nave, Ciro Di Lauro, sbarca improvvisamente dalla nave, in seguito, dirà di aver preso a martellate il comando del timone della nave per sabotarlo.

Nulla è certo riguardo alle cause della collisione. Di sicuro, è impossibile che il comandante della Moby Prince, Ugo Chessa, non abbia saputo far fronte, come dichiarano i periti, all’improvviso apparire di un guscio di noce sulla sua rotta che lo avrebbe costretto ad una virata fatale.

Sotto il garage, a prua, nel locale delle eliche di manovra, lo stesso locale da cui passano molti comandi della nave), sono state trovate tracce di esplosivi. E non di esplosivi qualsiasi, ma di Semtex e di T4. Il primo è un esplosivo di fabbricazione cecoslovacca e può essere non proprio facilmente trovato sul mercato nero. Il secondo è invece più tristemente famoso. Lo stesso esplosivo che ha firmato tutte le stragi incompiute in Italia. Un esplosivo militare, in dotazione alle forze Nato.

La perizia fatta eseguire dalle parti civili non può affermare con certezza se l’esplosione della micidiale miscela sia avvenuta prima durante o dopo l’impatto con la petroliera. Ma una ricostruzione fatta in base alle fotografie, alle immagini televisive, allo stato di ritrovamento di un camion che si trovava proprio sopra il punto dell’esplosione, farebbe pensare ad una esplosione antecedente all’urto, che avrebbe danneggiato sicuramente la manovrabilità del Moby, e fors’anche la visuale dalla plancia di comando del traghetto.

Ad avvalorare questa ipotesi è anche lo stato ed i luoghi in cui sono stati rinvenuti i cadaveri. Che dimostrano anche (ancora una volta) che la sopravvivenza a bordo del traghetto è andata ben oltre quei pochi minuti che, secondo l’inchiesta del ministero, giustificano il voluto ritardo nei soccorsi.

La maggior parte dei cadaveri dei passeggeri (l’ottanta per cento) è stata trovata all’interno del salone De Luxe, una stanza al centro della nave con porte tagliafuoco e pareti coibentate in grado di resistere al calore per almeno un’ora. Quindi i passeggeri (molti dei quali avevano con sé i bagagli) sono stati riuniti dopo il primo allarme a bordo in un posto che avrebbe potuto, se i soccorsi fossero arrivati subito, salvare la vita a tutti.

Gli unici passeggeri all’esterno del salone, sono tutti giovani e maschi, e si presume avessero formato una squadra che ha vanamente tentato di raggiungere il mare. Li hanno trovati nel corridoio, a pochi passi da quella porta tagliafuoco da loro stessi forzata dall’interno del salone. Su nessun cadavere c’erano segni di lesioni traumatiche, e quindi un allertamento c’era stato, prima della collisione. Bomba o non bomba, sul Moby Prince sapevano di correre dei grossi rischi, ed erano tutti in stato di emergenza.

L’unica certezza, ad oggi, sono gli immediati depistaggi. Prima per i soccorsi, e dopo per le indagini. Un’altra certezza, pesante come il piombo, è che anche in questa storia entra la massoneria. E non di traverso ma dalla porta principale. A Livorno le logge sono tante, ad una di queste, la “Scienza e Lavoro”, risulterebbero iscritti il capo dei vigili del fuoco di Livorno, l’ingegner Ceccherini, un avvocato dell’Agip, l’avvocato Uccelli, e infine altra strana coincidenza, gli uffici di uno dei periti del tribunale che si sono occupati del caso, Ernesto Gristina, sono negli stessi locali in cui si trova la loggia Scienza e Lavoro, a quanto ci dicono frequentati anche dal procuratore capo di Livorno Costanzo. E il cui Gran Maestro guarda caso, si chiama Gristina pure lui. Ma è il fratello.

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